Riceviamo e pubblichiamo integralmente la lettera dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie che celebra i trent’anni di parrocato di Don Mimmo Marrone nella parrocchia di San Ferdinando Re a San Ferdinando di Puglia.

“Non sapevo del trentesimo anniversario di parrocato (1990 – 4 ottobre -2000) di don Mimmo Marrone nella parrocchia di San Ferdinando Re in San Ferdinando di Puglia! Me lo ha comunicato egli stesso pochi giorni fa! Non ho potuto fargli la domanda, la stessa che, di solito, porgo al sacerdote che è alle soglie di un traguardo di vita importante quanto ad esperienza e vissuto (anniversario di ordinazione o di affidamento di un incarico): chi è per te il presbitero dopo venticinque o cinquanta di ministero?

Senza volerlo e senza pensare a me e a ciò che avrei potuto chiedergli, ha provveduto egli stesso a dare una risposta al quesito, con una pubblicazione agile, quaranta pagine, a colori, fluida nella lettura, con diverse illustrazioni, suddivisa in brevi capitoletti, e rivolgendosi ad un pubblico più vasto in particolare ai propri parrocchiani: Lettera alla comunità. Io non ho paura perché seguo te, il pastore (Ger 17,16). Da trent’anni vostro pastore, padre, fratello e amico, edito quest’anno dall’Editrice Rotas.

Don Mimmo affida dapprima al pensiero e successivamente ad una prosa articolata che si snoda in una serie di argomentazioni, la sua esperienza in  un consistente e qualificato percorso di vita nel quale egli si esprime  principalmente come uomo che è prete e come prete che è uomo! Una condizione questa dove i confini non sono mai chiari e definiti, ma sempre in una costante interdipendenza, tra dialogo e conflitto, tra fedeltà a Dio, all’uomo e alla propria comunità ecclesiale.

In apertura, egli precisa subito che «lungo questi anni non ho mai avvertito il mio ministero come grigia e stantia missione pastorale quotidiana» (p. 5). E la «stabilità» dell’incarico svolto quale «custode della fontana del villaggio» non si è rivelata pericolosa, causa di impantanamento o abitudinarietà, anzi va vista come segno di un «amore che rimane», non chiudendosi ai cambiamenti e alle novità. Rimanendo, però, ancorato «ad una regola di vita che ho tenuto fissi nella mia giornata il tempo della preghiera, dell’ascolto contemplativo della Parola, della celebrazione eucaristica, della sosta adorante dell’Eucaristia, dello studio e della intercessione accorata per tutte le necessità di quanti vivono, lottano e sperano in questo territorio» (p. 6).

Ma nella vita del prete non tutto è così semplice, definito, armonizzato! In lui possiamo ravvisare una serie di paradossi! Il primo, tanto per cominciare, evidenzia don Mimmo, è quello della «nostra umanità» (p. 9). Ragione per cui «ogni giorno, come prete, devo fare i conti con questa contraddizione: avere consapevolezza della mia povertà, toccare con mano la mia debolezza, e celebrare la Messa avendo tra le mani Colui che non ha esitato a consegnarsi alle mie mani». Ai fedeli, poi, l’invito: «tenete sempre fisso la sguardo su Colui che è custodito nelle mie mani e non sulle mie mani! Le mie mani sono fragili, impure, deboli, fiacche». Anzi, per essere più espliciti: «stringete un patto con me: io vi mostro Cristo attraverso le mie mani, e voi continuate a intercedere per me».

Anche il dedicarsi allo studio, l’essere acculturati o compiere l’esercizio del pensare, non devono trarre in inganno! Non si è per niente tuttologi! Accanto all’esperienza del sapere e conoscere di più – e siamo al secondo paradosso, quello dell’inadeguatezza e della lotta interiore –  ci si ritrova piombati in nuovi campi, ambiti e situazioni esistenziali da sondare e investigare con il risultato di ritrovarsi con tante domande e numerosi dubbi. Don Mimmo, ancora una volta, apre il suo cuore: «Non ho una parola per ogni situazione. Mi è difficile avere una parola per i familiari in lutto per una morte improvvisa, prematura, tragica. Mi si spegne la parola in gola, e ancor prima nella mente, per tragedie che toccano la vita delle famiglie, per i drammi delle comunità, dei popoli» (p. 10).

Egli, che, tra l’altro, continua a sentirsi e a rimanere «garzone» radicato alla cultura della «bottega» in cui svolge l’opera di «Divino Operario» (p.12), quale «servo inutile», vive con «tremore e trepidazione l’inadeguatezza tra quello che sono e quello che sono chiamato ad essere, tra la mia finitudine e il “mistero travasato in questo mio vaso di creta» (p. 14).

E se, però, nel contempo, qualcuno gli chiedesse «se era più bello fare il prete nei primi anni di quanto lo sia adesso, non esiterei a rispondere che il modo con cui gusto il mio essere prete adesso è infinitamente più saporoso dei miei anni giovanili» p. 15). E’ proprio così, in quanto non va dimenticato che la grazia lavora, accompagna, perfeziona, è quel «vino nuovo» e quella «promessa» che danno splendore e rendono bello l’essere presbitero.

Inoltre, con il passare del tempo, ha imparato a vivere nell’«autenticità» (p. 16), senza «maschere», coltivando una «fervida vita intellettuale» (p.17), frequentando letture impegnative, acquisendo sempre più la capacità di gestire i conflitti e l’immancabile dialettica. Lungi dal farsi contaminare dalla «retorica del sacro» (p. 19), tenendo presente il dato fondamentale per il quale «nel cristianesimo c’è il Corpo di Cristo morto in Croce e risorto, per cui il tempio e tutta le religione del sacro non ha più senso» (p, 19).  Ne deriva, pertanto, che «la Parola di Dio è un cardine costitutivo della vita del presbitero» (p. 20), come da curare è la predicazione e la stessa omelia («solo parlando di Lui e lasciando parlare Lui, il momento omiletico diventa esperienza spirituale per l’assemblea)».

Nel procedere della sua missiva, don Mimmo non tace su un tratto fondamentale della sua personalità, quello di essere «capace di empatia e umorismo» (p. 22), la prima da lui definita come «forma molto speciale di presenza», il secondo come «virtù preziosa … ci libera dal delirio di onnipotenza» (p. 23). E, nel tempo, ha imparato a vivere sapientemente l’ «habitare secum» (p.25), quel «saper stare con se stessi, così prezioso per la tradizione monastica»; e ciò  al fine di rientrare in se stessi, per raccogliere le energie spirituali, nella preghiera, nella interiorità, anche per staccare la spina da quell’essere continuamente connessi non solo tecnologicamente  ma anche dal flusso continuo di relazioni che, strano a dirsi, conduce a «svilire il senso della parola e far inaridire il cuore».

Non poteva mancare il riferimento al prete come «lievito di fraternità» (p. 26), nel quale egli crede e per il quale egli è in comunione con il proprio vescovo e con i ministri ordinati, una comunione che è «finalizzata alla virtuosa esperienza di condivisione, di fraternità, di sostegno reciproco, ad una dinamica ricerca di obiettivi comuni nel servizio del popolo di Dio» (p.27).

Per dirla in altri termini, il prete è «uomo generativo, compagno di viaggio … che ci fanno stare nella comunità, come pastori (prendersi cura) come padri (uomini generativi), come fratelli e amici (compagni di viaggio)» (p. 29), tre dimensioni che generano «un feeling spirituale straordinario», mai dimenticando o mettendo tra parentesi che il Signore «chiama la nostra umanità ad un percorso di trasfigurazione, ed è questo il servizio più bello che possiamo offrirci». Si comprende pertanto come «benché la missione del presbitero riguardi la predicazione del Vangelo, egli non può disinteressarsi in modo assoluto del campo politico, perché il messaggio di salvezza di Cristo concerne l’uomo intero e la società intera» (p.30). La «passione civile» lo deve portare a non tacere, ad esprimere giudizi su questioni sociali e politiche, a formare le coscienze, a costo, come è accaduto nel caso di don Mimmo, di essere accusato di indebita ingerenza: «la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione» (p. 32), soprattutto in ordine alla «corrispondenza o meno di una legge con i valori cristiani e con l’insegnamento del Magistero».

Quanto alla parrocchia, deve essere «parrocchia di popolo» (p. 33), casa di tutti,  aperta a tutti, fontana del villaggio, «struttura di base per l’appartenenza dei cristiani prima, dopo e fuori da qualsiasi appartenenza particolare», immersa fra le case degli uomini, che non deve smarrire la vocazione a  «ristrutturarsi nell’atto del Vangelo , cioè dell’annuncio della buona notizia», narrando e testimoniando «la storia di Dio-con-l’uomo, deve annunciare una sapienza altra, quella della Croce, e una profezia inattesa, quella della Risurrezione» (p. 35). Il tutto da realizzare nella «corresponsabilità, formazione, condivisione, fiducia».

Bello, delicato, carico di saggezza, l’ultimo capitoletto della riflessione di don Mimmo dal titolo “In ascolto del genio femminile” (p. 36), nel quale esordisce parlando della figura della Madre del Signore: «Alla scuola di Maria apprendo sempre di nuovo la docilità assoluta all’Eterno, la disponibilità a lasciarmi plasmare e condurre da Dio, senza condizioni e senza pretese. Con Maria ricordo a me stesso che Dio sta prima, sopra e alla fine di tutto». Ella è «modello più autentico del genio femminile … mi riferisco alla sua capacità di matura e profonda auto-coscienza, alla capacità di raccordare ragione e relazione, pensiero e sentimento» (p.37) e, in più, «la presenza di Maria nella mia vita spirituale mi educa quotidianamente alla dimensione materna e sponsale dell’essere prete. Il ministero presbiterale ha il compito di generare alla fede e di accompagnare il cammino di vita cristiano fino al raggiungimento della sua perfezione». E, come nelle prime comunità cristiane la presenza delle donne è stata di sostegno e di supporto all’evangelizzazione, così «non deve apparire singolare che il prete faccia della collaborazione, della vicinanza, della comunanza e dell’affinità elettiva con figure femminili, la condizione essenziale per realizzare un progetto di vita basato sulla relazione sul dono» (p. 38). E, quanto al rapporto tra preti e donne, egli scrive: «è arricchente, solidale, reciproco, limpido, rispettoso, libero da preconcetti e capace di compassione per le ferite che ciascuno e ciascuna si porta dentro. Ma che sicuramente va curato, irrigato e continuamente liberato dalle erbacce e dai parassiti».

A conclusione della sua lettera alla comunità don Mimmo leva un’invocazione: «fatemi posto nel vostro cuore». Dopo trent’anni egli desidera continuare «ad essere vostro pastore, padre, fratello e amico» – ma disponibile sempre all’obbedienza nei confronti del Vescovo per altri incarichi –   per continuare «a camminare insieme con il cuore trafitto dall’amore del Signore, sorgente pura della vostra gioia, regalando la luce del Vangelo con gratuità e freschezza. Vi voglio bene» (p.40)”